Le giornate continuavano a correre lente nella disfatta incipiente di un
impero.
Le notizie dai mille fronti aperti lungo i confini di un mondo, che
dimostrava tutta la sua folle e ingovernabile estensione quasi
all’improvviso, rimbalzavano nei capannelli che intorno ai Fori e al
Senato andavano aggregandosi e disaggregandosi nel corso apparentemente
sempre uguale delle settimane.
Furono programmate, per decisione del Senato, corse di bighe e giochi di
atleti, per celebrare i fasti di qualcosa che cominciava a gemere
vistosamente sotto le pressioni interne ed esterne, quasi che il governo
della città volesse esorcizzare, agli occhi ancora increduli del popolo,
presagi neri. Il senatore votò a favore dei giochi, come quasi tutti,
tranne due tribuni che avevano riscoperto furori quasi da pre-impero
nella loro oratoria allarmata e moralizzatrice.
Non furono ovviamente ascoltati e, nell’occasione dei giochi, fu
indetto, a maggior lustro e onore dell’Impero, anche un grande mercato,
della durata di quasi una settimana, da tenersi fuori le mura. Con
merci, cibi, lane e tessuti. Giocolieri, acrobati e saltimbanchi giunti
da ogni città del Lazio e dalle regioni vicine.
Rebecca in quelle settimane che intercorsero tra il suo acquisto e i
giorni dei giochi di primavera, cominciò ad avere e scoprire nuove cure,
prima a lei sconosciute, del suo corpo e del suo vestire. L’anziana
schiava che si era presa cura a suo tempo della crescita di Aminah,
rinnovò le sue arti, una volta ancora, su richiesta del senatore.
Insegnandole a colorare il viso, e camminare con una grazia di danza
leggera e felina che presto, per le sue forme e la sua predisposizione,
le divenne persino naturale.
Le insegnò come comportarsi in presenza del padrone, che lei sola,
schiava da sempre lì, poteva, unica nella casa, in virtù dei servigi
fedeli e della debolezza di cuore del senatore di fronte alle sue ormai
vaste rughe, chiamare semplicemente il senatore e non il padrone.
Insegnò a Rebecca la cura del suo corpo, l’igiene che a lei mancava
nella vita precedente. L’arte di sedurre abbassando occhi, sguardo e
viso.
Si divertì vedendo la giovane schiava giocare con i suoi saponi odorosi
al miele di artemisia. Le insegnò a camminare calzando calzari, avendo
cura dei suoi piedi che liberò in breve, con pietra pomice, bagni caldi
e erbe sapientemente mescolate, delle callosità che l’uso del camminare
sempre scalza le avevano causato sin da bambina.
Le insegnò a non coprirsi se l’abito la scopriva, seno o cosce o ambo le
cose, davanti al padrone o ai suoi ospiti, se non dietro sua richiesta,
di un breve e secco gesto della mano. Fece poca, pochissima fatica,
perché la ragazza selvaggia non aveva pressoché senso del pudore o del
celare il suo corpo. Anzi sembrava scegliere ogni movimento per restare
esposta e nuda, senza dare però a vedere la malizia sottile con cui li
sceglieva, quei gesti che facevano scivolare la tunica dalle spalle. O
aprirsi, così realisticamente accidentalmente, il laccio che la cingeva
in vita.
Poi le insegnò a colorare di terre rosse i capezzoli, per renderli più
evidenti, sanguigni, scuri e offerti allo sguardo e ai desideri. Si
prese cura del pelo del suo sesso che era incolto e gli dette forma
aggraziata, radendolo al punto che non perdesse morbidezza, non fosse di
attrito e fastidio sul sesso del padrone, ma fosse rado e corto a
sufficienza da piacere. Non fu difficile perché il pelo di lei era così
chiaro e, sebbene incolto, rado e morbido di suo, che dopo pochissimi
tentativi di forbici e rasoio ebbe felicemente ragione del vello chiaro.
La vecchia Armida insegnò poi a Rebecca l’arte e i modi del servire.
Quando il padrone aveva ospiti, da chi cominciare a mescere il vino,
quanto e come. Come tenere gli occhi bassi. Cosa che alla ragazza veniva
poco naturale e che suscitò più volte le ire del senatore, che quando
erano in pubblico avrebbe desiderato un comportamento più dimesso,
sottomesso e rispettoso. E non quel suo modo quasi sfrontato di
guardare, curiosa come una bambina a cui tutto il mondo fosse nuovo,
uomini, donne e cose.
Armida, su richiesta del senatore chiamò il fabbro che si prendeva cura
dei cavalli e del carro quando zoccoli o ruote erano da ferrare.
Dette al fabbro, che era maniscalco pure, e dentista, quattro sesterzi
d’oro vecchio. Da fondere e forgiare.
Ridurre a filo tondo, piegare su se stesso come un piccolo serpente
d’oro, avvolto su due spire.
Poi, mentre Armida teneva le braccia di Rebecca bloccate, i piedi della
giovane schiava ancorati e legati alle gambe del sedile, con un ferro
sterile rovente, il fabbro forò un labbro del sesso della schiava.
Avevano fatto bere vino a Rebecca, per la prima volta, di modo che
l’ebbrezza certa l’avrebbe aiutata a contenere il dolore. In bocca aveva
un ramo di salice scorticato, un piccolo bastone chiaro in cui poter
affondare i denti senza spezzarli se li serrava troppo per il dolore.
L’odore della carne e del fuoco morse le narici del fabbro e di Armida
con violenza. Il ferro caldo passò veloce, con la punta rossa sottile
nelle carni di Rebecca sigillandole, al suo stesso affondarci veloce,
all’istante col calore. Poi, dopo aver messo crema di propoli e olio di
lino sulla ferita cullandone il dolore con le dita, Armida asciugò il
sudore copioso che imperlava la fronte della ragazza, colandone misto a
lacrime sul viso, gocciolandole sui seni. Il maniscalco fece scivolare
il piccolo serpente d’oro, le sue due spirali nel piccolo foro viola,
gonfio al punto di sembrare carne chiusa ancora. Poi ne serrò con le
pinze piatte le due spirali chiudendole in modo definitivo.
Solo dopo tre giorni il senatore potè giocare con l’anello e stuzzicare
il labbro infibulato con legittimo piacere. Le cure della vecchia
schiava avevano accelerato la cicatrizzazione dell’ottimo lavoro del
fabbro e l’anello luccicava, splendido, docile a ruotare sotto le dita
del padrone, lucidato a dovere sulla carne ritornata rosa chiara che lo
tratteneva a vita.
Il senatore colse con piacere lo sguardo basso di Rebecca quando la
mandò a chiamare. Le sollevò il viso dopo aver constatato la bellezza
del sesso curato e del monile che trattenne tra le dita tirandola a sé.
In modo di avere gli occhi della schiava di fronte ai suoi.
E furono lo sguardo di orgoglio e di fierezza, e il coraggio che vi
lesse a dare fuoco all’istante al suo sesso e al suo cuore. Fu la prima
notte che la tenne nel suo letto, dopo i giochi d’amore, anche a
dormire.
Uscì che lei ancora nuda, avvolta malamente nella pelle che usava lui
come copertura, dormiva. La guardò a lungo, vestendosi, prima di uscire.
Il culo nudo, lo spacco di mela che amava così tanto violare, le reni
sottili che salivano come anse di anfora alla schiena. La pelle coperta
di microscopiche macchie scure, pioggia di efelidi di chi reagisce
arrossendo a piccoli punti e non facendosi ambra e velluto ai baci del
sole.
Uscito sorridendo, andò a vedere come procedevano i preparativi dei
giochi e del gran mercato.
E a mandare un messo, dal padre della sua sposa ripudiata. Per invitare
lui, lei, e la schiava che si era portata via da Roma.
Per i giochi, il mercato e una cena che aveva chiesto a Terzio Sabino di
organizzare nella sua casa di campagna, fuori le mura. Con cibi, danze e
musiche.
Poi comprò dei tessuti assai belli, trapuntati in filo d’oro puro,
giunti dalla Grecia. Perché Armida ordinasse alla sarta di via Salaria,
per Rebecca una tunica nuova.
Porpora, da indossare in quella occasione.
Toccò il tessuto, la greca in oro che ne percorreva l’orlo tutto a lato,
e immaginò il gioco di quell’oro con l’oro dell’anello celato sotto la
tunica, quando avrebbe ordinato a Rebecca di scostarla, aprendola sul
sesso, davanti agli ospiti di Terzio Sabino.
Per essere dentro di sé orgogliosa e lasciarsi ammirare.
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